Con una recente sentenza, del 27.05.2021, la Corte EDU, nel caso J.L. c. Italia n. 5671/16, ha condannato l’Italia per violazione dell’art. 8 della CEDU, per aver arrecato danno, da cd. vittimizzazione secondaria, alla persona offesa di un reato di violenza sessuale di gruppo, accaduto nel 2008 a Firenze, deciso con sentenza di condanna in primo grado e con assoluzione in appello dei sette imputati (CdA Firenze sent. 858 del 4.03.2015, la presunta vittima ha rinunciato ad ulteriori mezzi di impugnazione).

La CEDU rileva “che i diritti e gli interessi della ricorrente ai sensi dell’articolo 8 non sono stati adeguatamente tutelati in considerazione del contenuto della sentenza della Corte d’Appello di Firenze. In particolare, le autorità nazionali hanno omesso di proteggere la ricorrente dalla vittimizzazione secondaria durante tutto il procedimento, e la redazione della sentenza ne costituisce parte integrante della più grande importanza, tenuto conto soprattutto della sua natura pubblica.

Tra le altre cose, la Corte considera ingiustificate le osservazioni riguardanti la bisessualità, le relazioni sentimentali e i rapporti sessuali occasionali della ricorrente prima del fatto. La Corte considera che il linguaggio e gli argomenti utilizzati dalla corte d’appello trasmettono pregiudizi sul ruolo della donna che esistono nella società italiana e che rischiano di ostacolare la protezione efficace dei diritti delle vittime della violenza di genere nonostante un quadro legislativo soddisfacente.

La Corte è convinta che i procedimenti penali e le sanzioni svolgano un ruolo cruciale nella risposta istituzionale alla violenza di genere e nella lotta alla disuguaglianza tra i sessi. È quindi essenziale che le autorità giudiziarie evitino di riprodurre stereotipi sessisti nelle decisioni giudiziarie, di minimizzare la violenza di genere e di esporre le donne alla vittimizzazione secondaria usando parole colpevolizzanti e moralistiche che scoraggiano la fiducia delle vittime nella giustizia.

La Corte di Strasburgo non è chiaramente entrata nel merito della decisione assolutoria, ma ha nuovamente affermato che il danno arrecato origina proprio da quanto scritto in sentenza dai Giudici del gravame. La pubblicazione di fatti privati e personalissimi, ritenuti inconferenti con i fatti di cui al processo, ha esposto la persona offesa a colpevolizzazione ed a giudizi morali che non debbono trovarsi alla base di decisioni su reati di violenza di genere.

Ferma restando la centralità, nel processo penale, del diritto a vagliare l’attendibilità del testimone/persona offesa, la Corte EDU rileva che il riferimento all’abbigliamento o “al colore rosso della biancheria intima mostrata durante la serata”, alla “bisessualità” della persona offesa ed ai suoi “rapporti occasionali antecedenti ai fatti del processo”, nulla ha a che fare con il vaglio di attendibilità anzidetto. Al contrario, introduce elementi di carattere moralistico che danneggiano la persona offesa e violano il dettato dell’art. 8 della CEDU, che tutela “il diritto al rispetto della vita privata e dell’integrità personale”.

Fino a qui, niente di nuovo rispetto alle precedenti pronunce in materia; l’elemento di novità deriva dal fatto che la Corte di Strasburgo, nel condannare l’Italia, afferma che, proprio attraverso la sentenza ed i riferimenti sopra riportati, l’Autorità giudiziaria italiana ha “veicolato i pregiudizi sul ruolo della donna presenti nella società italiana” (sic!) e ciò nonostante il nostro Paese sia, a parere della Corte, dotato di tutte le norme necessarie a proteggere le persone che hanno denunciato violenza, da tali accadimenti processuali.

A tal proposito, preme ricordare, che il nostro attuale ordinamento fin dalle sue origini ha gettato le basi di un diritto di esistere in quanto esseri umani, di vivere in sicurezza senza subire alcuna discriminazione e, quindi, uno speculare divieto di discriminare la persona per quello che, semplicemente, è:

– l’art. 3 della Costituzione italiana promulgata nel 1947 sancendo “… pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”) non prevede un elenco chiuso di motivi di discriminazione, ma lascia modo di individuare nuovi elementi di discriminazioni su base personale o sociale;

– l’art. 14 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – o CEDU – sottoscritta nel 1950 e ratificata nel 1955, stabilisce espressamente che: “… nessuna discriminazione, in particolare quelle fondate sul sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche o quelle di altro genere, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza a una minoranza nazionale, la ricchezza, la nascita od ogni altra condizione”;

– l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea firmata nel 2007 ribadisce ulteriormente che: “È vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le convinzioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale.”)

– la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel 2016, con il giudizio del caso A.C. M.C. contro Romania ha stabilito due importanti concetti “Se in gioco vi sono i diritti umani, le leggi penali devono essere efficaci” e “Se le leggi penali non sono efficaci corrisponde una compartecipazione dello Stato al reato”.

Da sempre, quindi, l’ordinamento italiano ha tutti gli strumenti per evitare tali condanne; riceverle significa insistere, più o meno con convinzione, in una strada contraria a quella tracciata dalla nostra Assemblea Costituente.

Il Progetto Alice del Sindacato Avvocati di Firenze ANF – Progetto ALICE, insieme all’Associazione Donne Giuriste Italiane Firenze, e all’Associazione Anemone Lgbtqia+ intendono cogliere l’occasione per prendere una posizione netta a favore delle vittime di violenza sia primaria che secondaria e continueranno il loro impegno con iniziative positive per la difesa dei diritti di coloro che sono stat* les* da atti di violenza e discriminazione.

La sentenza CEDU ribadisce la improcrastinabile necessità di reagire – e quindi agire – non sui principi che informano il processo penale, ma sul modello culturale, ancora presente nel nostro Paese, che ha condotto fatalmente ad una sentenza densa di giudizi morali che colpevolizzano le donne per le proprie scelte di vita privata.

 

Il Sindacato degli Avvocati di Firenze e Toscana ANF – Progetto ALICE

Associazione Donne Giuriste Italiane – Sezione Firenze

Associazione Anemone Lgbtqia+