Brevi considerazioni sul disegno di legge sul lavoro autonomo.

di Cesare Piazza

Si sta discutendo in questi giorni di inizio del 2017, dinanzi alla Camera dei Deputati, un disegno di legge (già approvato dal Senato) concernente “misure per la tutela del lavoro autonomo”. L’attenzione della politica verso il lavoro autonomo ci fa indubbiamente piacere, perché ciò “risponde ad istanze da tempo rappresentate da Confprofessioni – di cui il sindacato forense A.N.F. fa parte – e dalle associazioni dei liberi professionisti e dei lavoratori autonomi” (Così il presidente di Confprofessioni Gaetano Stella nell’audizione dinanzi alla Commissione Lavoro della Camera.).

Il problema però – e non di poco conto – è che, nonostante l’evoluzione dei tempi e dei concetti, il libero professionista come ad esempio l’avvocato è sì un lavoratore autonomo, ma un po’ speciale, il cui “status” giuridico e sociale si trova in questi tempi fortemente contrastato e messo in discussione.

Cerchiamo di chiarire qualche concetto.

Che l’avvocato, oltre che svolgente una funzione di rilievo costituzionale ed esercente un servizio di pubblica necessità, sia anche un lavoratore autonomo degno di tutela, è cosa indiscussa e indiscutibile. È ormai concetto vetusto(*), non è un portato degli ultimi tempi, né una avanzata tesi di stile sindacale. Già fin dal 1971(**), inoltre, si sono progettati tipi particolari, anche a carattere cooperativistico, di società fra avvocati.

Poi c’è stata la Comunità – poi Unione – Europea che ha consacrato i nuovi concetti puramente economicistici delle attività professionali: e a seguito di ciò è intervenuto anche il legislatore italiano che, all’art. 3 comma 2 del D. Lgs. 2.2.2006 n. 30, ha sancito: “L’attività professionale esercitata in forma di lavoro autonomo è equiparata all’attività di impresa ai fini della concorrenza di cui agli articoli 81, 82 e 86 del Trattato UE, salvo quanto previsto dalla normativa in materia di professioni intellettuali.”.

Recentemente è esplosa una clamorosa controversia giudiziaria fra l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e il Consiglio Nazionale Forense (considerato, a termini di legge, alla stregua di “associazione di imprese”) a proposito dei limiti posti all’effettuazione di pubblicità da parte degli avvocati, culminata nell’inflizione a carico del C.N.F. di una sostanziosa pena pecuniaria. Il risultato è stato una modifica apportata all’art. 35 del codice deontologico, che praticamente ha liberalizzato qualsiasi forma di pubblicità.

Anche questo è un tassello in più, che va a completare il mosaico del nuovo disegno della professione dove, per l’appunto, dovrebbe andare a collocarsi il nuovo provvedimento legislativo di cui si parlava all’inizio, provvedimento però il cui titolo è curiosamente formulato come “tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale”; tipo di lavoro specificato poi nell’art. 1 come quello “di cui al titolo III° del libro quinto del codice civile” (cioè di cui agli articoli da 2222 a 2238).

Allora gli avvocati sono imprenditori?. O no? Bisognerebbe decidersi a mettere ordine in questo guazzabuglio di concetti: perché la formula del “libero professionista intellettuale” equiparato a imprenditore soltanto a determinati effetti, che sono poi i più sgradevoli, con il codicillo di definizione di “associazione di imprese” attribuita alle istituzioni ordinistiche, non soddisfa nessuno.

Insomma, o di qua, o di là: stare nel mezzo è un problema come stare a cavalcioni su una ringhiera……

Ed è poi lo stesso problema irrisolto della compatibilità dell’organizzazione collettiva del lavoro – le società, di persone o di capitali che siano – con la prescrizione contenuta nell’art. 2232 del c.c., secondo la quale il prestatore d’opera intellettuale deve eseguire personalmente l’incarico assunto. E anche della compatibilità degli accordi societari fra avvocati – quale che ne sia la forma – con la strana prescrizione contenuta nell’art. 4 della legge ordinamentale n. 247/2012 secondo la quale è nullo qualsiasi patto che limiti la libertà di scelta e di giudizio dell’avvocato nello svolgimento dell’incarico. Quest’ultima prescrizione appare davvero di difficile comprensione: se io mi metto in società con altri avvocati, il presupposto è proprio quello che le decisioni e le scelte da farsi nell’interesse del comune cliente devono essere condivise (se lo statuto prevede una direzione tecnico-scientifica da parte di un “capostudio”, prevarrà ovviamente l’opinione di quest’ultimo). Se la mia limitazione di libertà venisse ritenuta intollerabile, non si vede per quale motivo dovrei scegliere di essere socio con altri.

A tutti questi problemi non dà alcuna risposta il disegno di legge sulla tutela del lavoro autonomo, salve certe previsioni in materia di facilitazioni fiscali e sociali, e una abbastanza vaga delega al governo per ampliare il campo di competenza delle professioni ordinistiche relativamente ad atti pubblici soprattutto certificativi.

Che tutto il campo sia a rumore, però, è indiscutibile: si parla sempre più estesamente del concetto di “equo compenso” del lavoro professionale, da coniugare col precetto di cui all’art. 36 della costituzione, il che significherebbe ripristinare degli inderogabili “minimi tariffari” da non poter valicare in diminuzione a pena di nullità (***). Che strano, però: adesso che ci siamo abastanza abituati ai famigerati “parametri”, quasi quasi del ritorno alle farraginose e complicate tariffe ne faremmo anche a meno. Perché – è la mia opinione, beninteso – non è il calcolo dei compensi, che è il problema.

Il problema è l’afflusso di clientela, e l’abbondanza di lavoro; ma non è certo con una legge (oltretutto un po’ eterogenea e malfatta) che si risolve…

Per chi volesse approfondire…

(*) In un remoto Congresso Nazionale Giuridico-Forense echeggiarono – applauditissime – queste parole:

Vincendo pregiudizi, nobili se vuolsi, ma pure incompatibili coi nostri tempi, l’avvocato, che è e vuole rimanere un sacerdote cui anima il culto di una fede e l’onore di una grande tradizione, afferma pure i suoi diritti di lavoratore che deve guadagnare la sua esistenza e che ha il diritto e il dovere di difendere le condizioni dell’esistenza. Questa ardente questione professionale è sottoposta alle discussioni e alle deliberazioni del nostro Congresso; questa volta, come già un nostro grande antenato, noi avvocati discuteremo pro domo nostra, difenderemo la nostra causa. E dovremo vincerla, perché è davvero una buona causa.”.       

Le parole sono di Vittorio Emanuele Orlando, e il Congresso era il IV Nazionale, tenutosi a Palermo nel maggio 1914.

(**) Vale la pena di ricordare che nel congresso Nazionale della Fe.S.A.P.I. tenutosi a Terni nel settembre 1971 echeggiarono queste profetiche parole dell’allora segretario generale Umberto Randi:

L’avvocatura potrà sicuramente riemergere dall’oscuro momento che essa attraversa ed in cui il dispregio più recente è rappresentato dal trattamento fiscale riservatogli dalla riforma tributaria 2: attraverso di essa il legislatore appare convinto che la crisi della libera professione, di tutte le libere professioni, debba risolversi soltanto nel senso della creazione di grosse imprese professionali a carattere ibridamente imprenditoriale, nelle quali l’avvocato «artigiano» sia trasformato in dipendente o delle quali il professionista rimanga satellite.”.

Per completezza: la Fe.S.A.P.I. (Federazione dei Sindacati degli Avvocati e Procuratori Italiani), era un’organizzazione nazionale antenata dal 1988 del Sindacato Nazionale degli Avvocati (detto Federavvocati), e poi, dal 1967, dell’Associazione Nazionale Forense A.N.F. Mentre la nominata riforma tributaria era quella che prevedeva l’istituzione dell’IVA e l’introduzione dell’obbligo di tenuta dei libri contabili nonché della fatturazione.

(***) Sul revirement compensi/tariffe minime, è interessante registrare l’opinione espressa dal presidente della Commissione Lavoro della Camera, il quale il 17 gennaio 2017 ha detto: “Sono favorevole al ritorno delle tariffe per le prestazioni svolte dai liberi professionisti”. Tale presidente è Cesare Damiano, sindacalista di primo piano della FIOM, poi della CGIL, ministro del lavoro nel 2006 nel secondo governo Prodi (quando al ministero dello sviluppo economico c’era Bersani).